Ilva, l’ultima scommessa: la strada green (in salita) per salvare azienda e lavoro

Gli operai sperano in un nuovo rilancio: «Servono fondi, basta scelte ideologiche»

Ilva, l’ultima scommessa: la strada green (in salita) per salvare azienda e lavoro
di dal nostro inviato Umberto Mancini
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Lunedì 6 Maggio 2024, 07:22

Nelle pozzanghere di ruggine rosa, tra le strade del quartiere Tamburi, galleggia la polvere di ferro dell'Ilva. Lieve e quasi invisibile come il futuro incerto che avvolge la più grande acciaieria d'Europa. Oggi più che mai fragile e silenziosa, con la produzione ai minimi storici, le barre d'acciaio color cobalto accatastate sotto un cielo blu che fa da tetto alle ciminiere spente. È il cambio turno. E negli sguardi degli operai che attraversano il piazzale davanti alla fabbrica, all’ingresso “D”, cresce la preoccupazione. Dopo l’addio di ArcelorMittal, l’attesa del piano di rilancio del governo, l’ennesimo in 60 anni di vita del siderurgico, assomiglia all’ultima scialuppa a cui aggrapparsi. Una porta stretta da superare. Oltre 10 mila dipendenti, quasi la metà in Cig, che pagano a caro prezzo non solo i peccati del passato, le errate traiettorie di sviluppo industriale con i 17 anni di gestione Riva, ma anche gli ideologismi e una certa demagogia di sinistra che ha cavalcato i sequestri giudiziari e i blocchi degli impianti.

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In un gioco di veti incrociati paralizzante e devastante.

Fabio, da 10 anni in Cig a mille euro al mese, il 56% in meno dello stipendio base, mette nel mirino la «scellerata strategia di Arcelor, che non ha fatto il proprio dovere, lasciato andare alla deriva la fabbrica». «Ora - dice - ci vorrà tanto tempo per ripartire, avviare manutenzioni mai fatte, recuperare sul fronte ambientale». Più duro Andrea, capo reparto al lavoro anche la domenica: «La privatizzazione e i Riva hanno creato tante illusioni, fatto tanti errori, ma è nell’ultimo periodo, con Arcelor, che la situazione si è aggravata». Gli altri colleghi sfrecciano veloci all’ingresso, ma per tutti le soluzioni ai problemi strutturali, nonostante le bonifiche ambientali e le politiche keynesiane che hanno impiegato miliardi pubblici, almeno 10 secondo le ultime stime, sono stati sempre rinviate, parcellizzando gli interventi di reindustrializzazione e quelli per trovare un punto di equilibrio tra riduzione delle emissioni, normative europee e la salvaguardia della salute. Piegando i tempi del rilancio al ritmo delle sentenze della magistratura, allo scontro tra azionisti e magistrati.

Eppure l’Ilva vale quasi l’1% del Pil, è il cuore della filiera manufatturiera italiana, la seconda per importanza in Europa, il centro strategico di una economia che non può accettare la lenta agonia degli impianti, l’assalto della concorrenza estera, pronta a sostituire i prodotti tricolore con quelli a basso prezzo dei Paesi in cui vincoli ambientali e tutele dei lavoratori sono quasi inesistenti. In gioco c’è la qualità, la loro intrinseca sicurezza, al netto dei velleitarismo ambientalista che vorrebbe fare di Taranto una sorta di parco giochi o un distretto dello street food in grado di dar lavoro a migliaia di addetti. «Chiudere l’Ilva costerebbe meno che rilanciarla - aggiunge Paolo, che per 20 anni è stato nell’area a caldo - perché trasformarla in una acciaieria verde, che non inquina, è un progetto complesso, rischioso, quasi impossibile».

Sul guard rail che circonda il grande stabilimento, impresso come un tatuaggio, un sottile velo di ruggine rossa, il ricordo delle emissioni. Ora abbattute o comunque ridotte. «Forse - aggiunge Carlo, tuta con il logo dell’Ilva ancora indosso, alla fermata del bus 13 - in tanti dovrebbero chiedersi che fine farebbero l’indotto, i rifornimenti alle fabbriche del Nord, il know how costruito sin dai tempi della Italsider, se l’Ilva cessasse di esistere». Più in là sui muri delle palazzine degli operai che circondano lo stabilimento campeggia un gigantesco «Chiudete l’Ilva». Un urlo scolorito dalla maggioranza che qui ci lavora, anche se a singhiozzo. E che spera. Per Biagio Prisciano, respondabile della Cisl per l’Ilva, la fabbrica è stretta tra i ritardi della manutenzione e le strategie fallimentari dei privati, ma il salvataggio è ancora possibile.

Di certo non hanno aiutato i sequestri giudiziari che hanno bloccato la produzione, innescando una sciagurata deriva anti-industriale, un populismo di facciata. Ora con l’avvio dell’amministrazione straordinaria e in vista, si spera, di un acquirente, il piano da 150 milioni, da aggiungersi ai 150 già stanziati dai commissari e in attesa del prestito ponte da 320 milioni, è l’ultima sfida. Qualcosa insomma si muove, ma la luce in fondo al tunnel ancora non si vede: «Se non arriva il prestito a stretto giro, chiudiamo», ha dichiarato lapidario Giovanni Fiori, che insieme a Davide Tabarelli e Giancarlo Quaranta compone la terna dei commissari straordinari di Acciaierie d’Italia. L’organico in attività è infatti ridotto al minimo indispensabile affinché gli impianti non si spengano del tutto. Nello stabilimento di Taranto resta in funzione solo un altoforno su tre, che però continua a produrre al di sotto delle potenzialità.

Gli altri due potrebbero non riaccendersi più per essere sostituiti da due forni elettrici, che – stando a quanto dichiarato dal ministro Adolfo Urso – entrerebbero in funzione solo nella seconda metà del 2027. Un tempo lungo. Quasi infinito per resistere ancora sul mercato, ma necessario alla transizione green o quanto meno ad avviare la metamorfosi. Il regista Michele Riondino, che come il padre era destinato a lavorare in acciaieria, e sull’Ilva ha fatto un film, non si rassegna. «La fabbrica - ha scritto - fa quello che l’uomo le dice di fare. Ecco, se ami una fabbrica la aggiorni, la sistemi, la attualizzi, la fai sopravvivere. Ma se la fabbrica è il modo più veloce per battere cassa, l’uomo avrà in testa solo di guadagnarci: è con l’incuria umana che la fabbrica si incattivisce».

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