Fabio Nicolucci

L'analisi/ Perché Hamas non si sconfigge solo con le armi

di Fabio Nicolucci
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Giovedì 9 Maggio 2024, 00:24

Che cosa succederà a Rafah? Se le guerre fossero facili da prevedere, pianificare, e linearmente far finire, non ci sarebbero così tanta letteratura ed esperti strategici. Il comportamento degli esseri umani è erratico. Se lo si mette insieme in grandi quantità diventa non più facile bensì più difficile da prevedere. Lo si può chiamare eterogenesi dei fini, la sfida della complessità, o libero arbitrio. In ogni caso è un rompicapo.

E’ infatti un rompicapo quello che succede a Gaza tra Israele e Hamas. Perché è difficile prevedere le mosse dell’uno e dell’altro, e quindi l’andamento del conflitto? Perché l’obiettivo conclamato da Israele a gennaio non è quello praticabile. L’obiettivo dichiarato era “sconfiggere militarmente Hamas”, come fosse una pustola aliena da schiacciare sul corpo sano del popolo palestinese. Hamas= Isis, si diceva. Purtroppo non è così. Sarebbe più semplice. Ed anche più consolatorio. Hamas invece fa parte del corpo del popolo palestinese, e per curare il bubbone occorre un’operazione chirurgica e non un bombardamento su tutto il corpo, un lungo uso accorto degli strumenti militari e politici, non l’immersione del corpo in acqua bollente.

Se non c’è corrispondenza reale tra mezzi e obiettivi - lo spiegava già Machiavelli - si finisce con la dannazione dell’eterogenesi dei fini: si parte con un obiettivo e si finisce da un’altra parte. Era già successo alla fine della prima fase dopo il 7 ottobre – sacrosanta e di difesa - di novembre e dicembre, quando si discuteva se fare o meno un’invasione di terra. Si diceva di no, si pensava di sì, e a furia di riempire Gaza di forze speciali, è stato il terreno a decidere: dato che la Striscia è sottile e in alcuni punti dal mare al confine con Israele ci sono solo pochi chilometri, la sola densità di corpi speciali e incursori ne ha talmente impedito la mobilità da farli diventare ipso facto un’invasione di terra.

La stessa confusione strategica si sta ripetendo a Rafah. In questa fase della guerra l’obiettivo ufficiale è ideologico – “la distruzione di Hamas” – e confligge con l’obiettivo concretamente ottenibile. Che vogliono tutti gli altri, a parte il premier israeliano e i suoi ministri di estrema destra, e cioè la liberazione degli ostaggi e un cessate il fuoco. Ma più avanzano le operazioni militari e più diventa chiaro che l’obiettivo di distruggere solo militarmente Hamas è velleitario.

Conquistare tutto il territorio infatti rischia paradossalmente di produrre l’effetto opposto. Di rafforzare Hamas. Perché, come Biden non si stanca di ripetere, in Iraq si è imparata la lezione: in questi contesti, soprattutto di guerra asimmetrica, se si vuole veramente vincere bisogna conquistare non solo il territorio ma anche “cuori e menti”. E non solo militarmente dei chilometri quadrati. Tra l’altro, più l’esercito israeliano si spinge al confine con l’Egitto, e più si impantana nelle sabbie mobili di dinamiche politiche che ne rallentano e imbrigliano l’azione successiva. Creando frustrazione e impotenza anche tra i soldati, come nella “conquista” del valico di Rafah, che è fuori da Rafah city ed è ora un vuoto valico nel deserto dei Tartari. Una frustrazione e impotenza che ha fatto subito il giro social del mondo arabo, perché alcuni carri – contro gli ordini, come sta succedendo sempre più spesso, per il basso morale – hanno emblematicamente filmato giubilando la distruzione del cartello “I love Gaza”, ed altri soldati hanno issato la bandiera israeliana, facendo infuriare gli egiziani dall’altra parte del valico.

Arrivando a Rafah si vede avvicinarsi il bivio di fronte ad Israele e soprattutto al suo premier: salvare gli ostaggi o continuare come prima. Le variabili sono tante, ma il fattore tempo comincia ad essere determinante. Non tanto per la pressione dei familiari degli ostaggi, quanto perché sempre più ideologica diventa la posizione di chi dice “fino all’annullamento di Hamas, mission accomplished”.

E più passa il tempo e meno l’elettorato anche israeliano si può convincere che Hamas possa essere sconfitta solo militarmente. E sempre meno è disposto a sostenere i costi di una guerra senza politica, come in Ucraina. Costi che pagano anche altri, come l’Egitto che sta andando in bancarotta per il blocco del Canale da parte degli Houti. La partita è dunque ora tutta politica, e nel campo di Israele. Si gioca alla Knesset, e nei pratoni circostanti. E’ una partita difficile tra isolazionismo e multilateralismo, tra tribalismo e umanesimo, tra prima la Terra biblica o prima il Popolo ebraico. Mai però sottovalutare la sua capacità di salvarsi dal Faraone, abbandonando l’Egitto anche si dovesse attraversare il Mar Rosso.

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